AGITATORI CULTURALI, WRITING

Intervista a Fabiola Naldi
di Pietro Rivasi

Fabiola Naldi è professoressa di prima fascia presso l’Accademia di Belle Arti Bologna, docente a contratto all’Università di Bologna e allo IED di Firenze. Nelle edizioni del 2009, 2011 e 2013 cura la Biennale del Muro Dipinto di Dozza (Bo) e dal 2012 al 2016 è curatrice insieme a Claudio Musso di Frontier. La linea dello stile.
Chi
Fabiola Naldi
Città
Bologna

Intervista a Fabiola Naldi

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AGITATORI CULTURALI, WRITING

Intervista a Fabiola Naldi
di Pietro Rivasi

Fabiola Naldi è professoressa di prima fascia presso l’Accademia di Belle Arti Bologna, docente a contratto all’Università di Bologna e allo IED di Firenze. Nelle edizioni del 2009, 2011 e 2013 cura la Biennale del Muro Dipinto di Dozza (Bo) e dal 2012 al 2016 è curatrice insieme a Claudio Musso di Frontier. La linea dello stile.
Chi
Fabiola Naldi
Città
Bologna
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Quali sono i primi “segni” nello spazio pubblico che hanno colpito la tua attenzione e perché? 

Sono nata in una città caratterizzata fin dagli anni ‘70 da una particolare attenzione al segno spontaneo, di carattere prima ideologico, poi culturale e artistico. Segno che ha poi in qualche modo determinato anche la storia della città stessa, o almeno una parte di quella storia. Allo stesso tempo ricordo segni, avendo iniziato a viaggiare molto presto, ancora più invasivi ed invadenti in altre città. La prima forse è stata Londra, poi Amsterdam, Monaco e Parigi, ma la Londra della fine degli anni Ottanta è quella che ho più nel cuore.

Per quanto riguarda Bologna, il mio rapporto con la città è stato all’inizio di rifiuto (ovvero: scappavo ogni volta che i miei genitori me lo permettevano) poi l’ho riscoperta durante i primi anni di università, nei pieni anni Novanta. Inoltre, il mio modo di vivere e di percepire gli spazi cittadini è cambiato in base a precisi periodi della mia vita, e gli stessi spazi si sono svuotati e riempiti di senso in base ai miei interessi, ai miei studi, ai miei ascolti. Posso però dirti che non ricordo la mia città senza segni e forse questa potrebbe essere la dichiarazione di una generazione, una generazione che inevitabilmente è cresciuta con varie testimonianze murali stratificate.
In particolare Bologna ha questa caratteristica (e per questo ancora viene studiata a partire non dai suoi monumenti, ma dalle presenze non sempre autorizzate sugli stessi monumenti o edifici): non mi riferisco solamente al lettering e al Writing, che in città e sulla città si è visto soltanto dagli anni ’80 in poi, ma ad altre scritture.

Ne ricordo in particolare modo una che mi ha accompagnato per diverso tempo e non era su un muro esterno, pubblico, ma in un edificio indimenticabile per una parte della popolazione bolognese, via Zamboni 33. Si trovava dove ora c’è il Dipartimento di studi orientali ma negli anni Novanta era la sede del Dipartimento delle arti del DAMS e più precisamente all’entrata dello studio di un professore con il quale poi ho a lungo lavorato dopo essermi con lui laureata, specializzata, dottorata: Renato Barilli. La frase era un “residuo” dell’occupazione della Pantera dei primi anni Novanta: c’era scritto: «Barilli, ridacci la nostra cucina».

Il mio primo contatto con il Writing avviene quindi in città diverse e molto lontane da Bologna (e in particolare modo Londra, poi Liverpool, Bristol, Manchester dove durante l’adolescenza passavo lunghi periodi estivi), a Bologna non mi sono accorta immediatamente di quella cultura, anche perché vivevo in una area diversa rispetto ai quartieri in cui si stavano in qualche modo fondando o stabilendo le prime crew.
Pur non avendone mai fruito, ho un lontanissimo ricordo de L’Isola Nel Kantiere e del loro stencil risalente a quando andavo ancora a scuola. Ho invece il ricordo vivido di quelli che poi sono stati gli spazi indipendenti e anche dei centri sociali nella mia città sempre negli anni Novanta.

Bologna si unisce per me a Milano città con la quale (oltre ad averci vissuto per dieci anni) ho condiviso una costante relazione fatta di amicizie e lavoro, nella quale quindi ho ricordi molto netti di molte delle prime crew cittadine; mi ricordo molto giovane camminare in giro per Milano anche in luoghi distanti dal classico immaginario meneghino sul finire degli anni Ottanta. Tengo però anche a sottolineare che io non sono mai stata parte attiva di quel mondo, ovvero non ho mai scritto sui muri (anche se Dado mi ha sempre detto che ero brava nell’outline – ride N.d.R.), l’ho sempre assorbito indirettamente, fino poi ad arrivare a conoscerne le realtà, giungendo a codificarlo e a riconoscerlo.

Più che un ricordo, mi rimane la sensazione continua di una città scritta, parlante, comunicativa (ben oltre ciò che era legalmente lecito fare) e la consapevolezza di una capacità di riconoscimento non solo delle firme, ma anche di coloro che le facevano, in maniera abbastanza inaspettata per i miei coetanei e per le cose che andavo a vedere. Aggiungo che ho studiato in un momento in cui l’istituzione nella quale poi mi sono laureata, ovvero il settore arte del DAMS, promuoveva un approccio non comune di interlocuzione con i luoghi ed i segni underground e non nego che forse una delle voci con cui io sono entrata in contatto in maniera indiretta, ancor prima di Pea Brain o CK8, quindi delle figure che hanno in qualche modo mediato l’aspetto delle sottoculture e quello artistico in quegli anni, è stata una figura che io continuavo a incontrare come donatrice di molti libri che leggevo nella biblioteca del dipartimento allora in via Zamboni 33. Si tratta di Francesca Alinovi, scomparsa purtroppo già nel 1983.

Secondo il tuo sentire, come è cambiato il rapporto tra la città ed il Writing e viceversa, da allora ad oggi?

La città in cui io sono nata, in cui in parte sono cresciuta e dove ho studiato, ha convissuto “relativamente” bene con certe forme di cultura underground, ammiccando quando queste diventavano popolari, ma sostanzialmente ostacolandole in ogni forma.

Quindi, se devo dirti la verità, io non credo che questo sentire sia stato così particolarmente accettato e condiviso. Certamente questo che stiamo vivendo non è il momento in cui quel sentire di cui tu mi chiedi è diventato sensibilità, empatia: al contrario, devo ammettere che è un momento durissimo, di grandi ostacoli, di propagande, di retoriche opposte a ogni forma di cultura indipendente.

Credo che il momento che stiamo tutti vivendo sia una delle più grandi occasioni mancate per oltrepassare il pregiudizio, per adoperarsi al fine di comprendere gli spazi comuni in termini relazionali e non contrapposti, smettendola una volta per tutte di rimbambire i cittadini e gli avventori delle varie città italiane con la noiosa lettura visiva di un bello, pulito, decoroso che non esiste. Perseguirlo oltremodo produrrà solo un maggiore controllo degli spazi e una marcata aggressività per tutto ciò che non ha ordine o che all’ordine non appartiene.

Ci sono stati momenti nei quali hai visto cambiare il rapporto tra la città e il fermento che per semplicità definirei controculturale che l’anima?

Sì, sempre! Accade periodicamente, in base anche a una visione culturale della città proposta dalla gestione politica di turno e per questo indico una precisa responsabilità delle più svariate amministrazioni comunali che hanno governato la città.

Bologna oscilla costantemente tra il bastone e la carota, una strana forma schizofrenica di accettazione, di coinvolgimento, di condivisione e di collaborazione con quelle stesse realtà che poi per altre vie combatte, persegue, multa e ostacola.

Certamente ci sono stati momenti particolarmente eclatanti anche se per non essere troppo lunga mi concentro sui 2000 (avrei altrettanti ricordi per gli anni Novanta). Il primo momento di grande irrigidimento fu quando vinse le amministrative comunali Giorgio Guazzaloca ed alla guida dell’assessorato alla cultura arrivò Marina Deserti. Quello fu un momento in cui la città iniziò a vedere i primi svuotamenti reali di quella cultura underground. Nella cultura che potremmo definire popolare Guazzaloca è stato quello che pur non avendo chiuso i centri sociali, ha avviato una narrazione, quasi un analfabetismo culturale di ritorno in cui sono apparsi i primi vagiti di una visione della città provinciale, di una crescente forzatura nel limitare certe libertà espressive tanto da produrre un ripiegamento e un arretramento.

Un altro momento cardine è stato forse l’annuncio dei, se non sbaglio, 250.000 € di un altro sindaco che molti di noi avevano creduto un sindaco aperto, certamente progressista, che era Sergio Cofferati. L’azione di quel sindaco andò invece in direzioni opposte, dimostrandosi per niente propenso a certe forme culturali, né positivo, né comprensivo, né dialogante. Fu invece rigido e finì per essere definito il sindaco sceriffo tanto che credo sia stato proprio per sua precisa colpa se la città si è poi preparata all’idea di città pulita, lustra e volta unicamente al turismo.

Ci siamo “salvati” in parte solo perché l’assessore alla cultura del tempo fu Angelo Guglielmi.

Screenshot della pagina de Il Resto del Calrino Bologna del 2010 - Query: 17 aprile 2023
Screenshot della pagina de Il Resto del Carlino Bologna del 2010 – Query: 17 aprile 2023.


Poi è arrivato il commissariamento della città dopo l’affair Flavio Del Bono: la vera sceriffo della città Annamaria Cancellieri che insieme al questore dichiarò guerra ai writer con una sorta di piano antigraffiti: la task force Pandora che prevedeva la schedatura, la denuncia, il sequestro dei materiali. I writer bolognesi (e non solo loro) ne ricordano certamente la violenza.

Prima pagina de Il Resto Del Carlino, 11/09/2010
Prima pagina de Il Resto Del Carlino Bologna, 11/09/2010 dall’archivio Nemo.

Attraverso questi brevi racconti credo di aver ammesso che il Writing mi accompagna da molto tempo, tanto da affermare che realmente non credo di potere distinguere una mia memoria visiva urbana avulsa dai quei segni nella città.
Dopo una fase così radicale di ritorno all’ordine sono giunti, invece, tempi più concilianti, quelli nei quali Claudio Musso ed io, con la collaborazione di Dado, abbiamo portato avanti ciò che in realtà altro non era che l’ampliamento del classico progetto nel cassetto, fermo da anni. Finalmente avevamo un interlocutore che dialogava in maniera trasversale e internazionale, certamente più aperto, e molto intelligente, ovvero l’assessore alla cultura Alberto Ronchi che dopo un incontro conoscitivo con Dado, chiese di incontrare coloro che dal punto di vista storico critico si occupavano di questi fenomeni.

Il progetto era già pronto a dire il vero. Pochi giorni dopo fummo ricevuti da Ronchi ed è così che nacque Frontier – La linea dello Stile. Un momento in cui abbiamo scelto di fare parte di un dialogo costruttivo con la città, senza alcun patto di collaborazione con l’amministrazione pubblica, ma attraverso un confronto costante con realtà pubbliche fra le più diverse (oltre a interminabili riunioni condominiali con gli abitanti dei luoghi dove avevamo scelto di intervenire).

E la città, seppur con alcune tensioni o fraintendimenti, ha provato ad aprirsi. Ricordo una lunga conversazione con amministratori pubblici per modificare anche il linguaggio con cui si comunicava alla cittadinanza, quindi la scelta di circostanziare alcuni termini per evitare fraintendimenti, la possibilità di utilizzare vandalismo grafico per definire alcuni atti che allora ci sembrò un buon compromesso in grado di diversificare la percezione.

E poi niente, poi è arrivato il 2016, è arrivata la scelta di Blu, è arrivata la nostra scelta. C’è stata una grande divisione anche tra alcuni di noi.

Era tempo di smettere, era tempo di prendere posizione (e quando lo si fa si risulta sempre radicali in questo maledetto Paese) e di dire chiaramente NO a quanto accadeva e sarebbe accaduto.

Screenshot dal sito di Repubblica, articolo del 12 marzo 2016 - Query 17 aprile 2023
Screenshot dal sito di Repubblica, articolo del 12 marzo 2016 – Query: 17 aprile 2023.

Io non ho nessun tipo di rammarico, nessun tipo di rimpianto e fermamente credo in quella scelta estrema, sicuramente non politica, ma certamente culturale, che io e Claudio Musso abbiamo continuato a portare avanti.
 Ora c’è more PUBLIC less PROGRAM.

Programma di More public less program a cura di Fabiola Naldi
Programma di More public less program a cura di Fabiola Naldi.

Secondo te è necessario che ci siano figure di “mediazione” tra quello che – almeno un tempo – si definiva come “underground”, istituzioni e mondo commerciale?

Anche in questo caso c’è stato un breve periodo in cui ho creduto che il mio ruolo di storica dell’arte, di curatrice e di critica militante, potesse mediare nella codifica, nella conoscenza, nell’approfondimento di un movimento esposto all’esterno, ma rivolto al proprio interno per quanto riguarda i codici, il lessico, le regole.
Ora sono certa di essere stata ingenua e ho maturato la consapevolezza che solo una piccola testimonianza del movimento possa considerarsi pratica artistica a tutti gli effetti. Mi sono anche sentita in colpa in alcuni momenti per aver alimentato il dialogo, la relazione fra contesti che in realtà non si parlano affatto, e ho capito a mie spese, che il ruolo non può più essere di mediatore pensi di catalizzatore di pensieri e riflessioni.

Viviamo un momento così violento e aggressivo dal punto di vista urbanistico, architettonico, sociale ed antropologico che la volontà che ho avuto un tempo rischia di essere fraintesa.

Non c’è città italiana che non stia subendo una trasformazione, uno svuotamento, una speculazione, non solo edilizia. Se per mediazione intendi anche un approccio educativo conoscitivo allora non posso che dirti che io, nonostante sia una docente, non posso svolgere questo compito perché la mia parte militante prende il sopravvento. Credo che questo non sia un momento di mediazione, ma di azione dinamica e in alcuni momenti, forse in alcuni passaggi, anche di resistenza. Uso queste parole riferendomi anche ad alcune derive populiste del movimento, ad alcuni operatori che hanno confuso il ruolo dell’essere artista e anche alle nuove generazioni che non vorrei fraintendessero cosa significhi realmente scrivere in strada.

Hai assistito alla nascita ed a quella che io ritengo una profonda trasformazione del “muralismo contemperaneo” (inteso come quello “post-graffiti” diciamo, per semplicità), curando eventi che oggi penso si possano considerare tasselli importanti della storia di questo filone legato all’arte pubblica. È in qualche modo cambiata la tua opinione su questo genere di interventi?

Ho lavorato con ciò che già intendevo post graffiti nella seconda metà degli anni ’90 e allora lo facevo anche negli spazi istituzionali e nelle gallerie. Tutta la mia attività della seconda metà degli anni ’90, sia dal punto di vista critico sia dal punto di vista curatoriale andavano in quella direzione. Per me era già post graffiti, per me era già un altro modo di intendere la prassi e l’intenzione dell’intervento sul muro (diverso il supporto treno per cui varrebbe la pena fare un’altra intervista).

A tutti gli artisti con cui ho collaborato non ho mai chiesto di portare una tela o un semplice intervento, ma di riflettere in modo specifico sullo e nello spazio, “obbligandoli” a volte anche a fare cose che neppure loro erano bene consci di fare. Claudio Musso ed io non abbiamo mai considerato Frontier come la possibilità di ragionare sulla nuova scena del muralismo. Frontier era l’unico modo per poter lavorare con i writer che ritenevamo fondamentali nell’uso della lettera, nell’uso del colore, nell’uso della traccia astratta o figurativa, riferendoci chiaramente sempre solo a determinate discipline. Non ci interessava il muralismo, ci interessava invece lo stile.

Copertina del catalogo di Frontier - The line of style, Damiani 2013.
Copertina del catalogo di Frontier – The line of style, Damiani 2013.

Questa è forse la differenza sostanziale tra chi realizza festival e chi invece ragiona in maniera storico critica. Per noi, la fenomenologia degli stili era fondamentale, i testi che abbiamo scritto, i convegni che abbiamo prodotto nell’arco di questi ultimi dieci anni (per non parlare di quello fatto prima), non portano a una riflessione su che cosa sia ora il muralismo, il post muralismo o il nuovo muralismo, etichette che, devo dire la verità, interessano molto poco proprio alla luce della rincorsa a dare e produrre nuovi termini per posizionarsi in modo teorico in questo lungo movimento. Se avessi ragionato in questo modo non avrei interrotto il progetto e avrei accettato commissioni o inviti (presi poi da altri) che certamente mi avrebbero reso economicamente più agiata.

C’è un’intervista rilasciata in un qualche giornale locale di diversi anni fa, nella quale la giornalista parla di museo a cielo aperto. Io non ho mai pensato ai progetti che ho realizzato in quel modo. Il museo è una cosa, il cielo un’altra, lo spazio aperto e pubblico ha caratteristiche specifiche. Come molto diversa è l’arte pubblica che non ha certamente a che vedere con il Writing, ma che può dialogare con certe forme espressive. Se mi chiedi invece se alla luce di queste riflessioni, le mie posizioni sono cambiate, ho risposto già negli altri interventi.

Ho fatto una scelta precisa; nel mondo della strada, nel Writing, ho lottato per una scelta di libertà, e soprattutto ho scelto di non farmi troppo coinvolgere dal sistema economico creatosi intorno all’arte urbana.

Sono sicuramente una figura “istituzionale” che agisce nel sistema artistico contemporaneo: sono una dipendente pubblica, faccio parte di consigli di amministrazione, di commissioni pubbliche, nessuno può certamente dire che sono indipendente in questo senso, ma nell’arte urbana, e chi mi conosce sa bene di cosa parlo, ho sempre mantenuto un ruolo preciso in cui ho messo al primo posto l’etica, sia per me che per gli interlocutori con cui mi relazionavo.

Ho sempre ribadito che quando accettavo di lavorare con i writer, ciò che loro avrebbero ricevuto era una presenza lontana dalle mediazioni economiche, ma forte nel prendere posizione sul valore autentico dell’intervento, della pratica, della storia. Un lavoro del genere quando lo si condivide con il ruolo di docente purtroppo viene penalizzato nella sua diffusione.

Mi dispiace solo scrivere sempre (e pubblicare) in italiano, perché per queste pratiche, la lingua inglese avrebbe aperto a relazioni più ampie.
Sto lavorando da diversi mesi a una redazione critica in lingua inglese dei testi di Francesca Alinovi. A parte pochi testi scritti durante gli anni americani, anche l’Alinovi è stata penalizzata dalla lingua. Nei molti anni che ho trattato il suo lavoro non mi ha mai interessato rimettere mano ai suoi testi, pubblicandoli nuovamente sotto nuove vesti, con nuove introduzioni, l’Alinovi è sempre bastata a se stessa e nessuno dovrebbe strumentalizzare il suo lavoro. Diverso invece la possibilità di portare la sua visione oltre i confini nazionali.

Atlante dei movimenti culturali contemporanei dell'Emilia-Romagna. 1968-2007. Vol. 3: Arti. Un estratto del saggio di Fabiola Naldi pubblicato in questo volume diventerà il suo contributo per All City Writers (Kitchen 93, 2009)
Atlante dei movimenti culturali contemporanei dell’Emilia-Romagna. 1968-2007. Vol. 3: Arti. Un estratto del saggio di Fabiola Naldi pubblicato in questo volume diventerà il suo contributo per All City Writers (Kitchen 93, 2009)