Intervista a Zamoc – Modena
di Pietro Rivasi
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Zamoc nasce artisticamente insieme alle prime edizioni del festival Icone e col tempo diventa uno dei muralisti più interessanti che il panorama italiano abbia prodotto fino ad oggi.
Quando hai sviluppato interesse verso il writing e/o arte urbana più in generale?
Il primo Icone all’Ex Amcm e Defumo in Villa D’oro nei primi 2000 sono stati il battesimo di fuoco della città, e sono stati anche il mio. All’epoca avevo solo 15 anni, in casa mia internet era ancora lontano, avevo un’età in cui entrare in contatto con persone non appartenenti al tuo gruppo era pressoché impossibile, ma posso perfettamente ricordare il fascino che i murales esercitavano su di me: l’alone di mistero che li permeava era fonte di una fortissima attrazione, non perdevo mai l’occasione per andare a guardarli.
Come era la situazione nella tua città all’epoca, c’erano già segni riconducibili a questi movimenti quando tu hai cominciato?
Non so ne se e nè quando avrei iniziato a dipingere se non ci fosse stato Icone nella mia città, per questo ne sono cosi riconoscente: aver potuto assistere non solo alla creazione di un singolo murales, ma di un intero movimento. Sono state le sue varie edizioni a farmi prendere sempre più coscienza (e coraggio) per iniziare dipingere.
Quali sono i primi segni che hai visto dal vivo e ti hanno colpito e perché?
Blu al Palazzetto dello sport, nel 2003 (era il 2004 n.d.r.). Aveva disegnato un uomo grigio di 8 metri che sviscerava dalla cerniera dei pantaloni una disgustosa testa gigante. Pezzo che poi venne censurato con un mutandone qualche mese dopo. Ero in terza superiore. Epico, tutto.
Credi che ci siano stati dei locali o delle situazioni, istituzionali o meno, che possano aver contribuito al loro sviluppo?
Ancora una volta, Icone e Sartoria Comunicazione, senza ombra di dubbio. Due mondi, separati agli albori e poi incontrati dopo anni, che hanno sicuramente contribuito a rendere Modena una città di colore.
Nel tempo, come è evoluto il tuo rapporto con queste forme d’espressione?
È diventata una passione, poi un mestiere.
Sono sempre stato molto legato alla manualità espressiva; nei murales ho trovato una via per unire tutto ciò che più mi piace a una dimensione artistico/lavorativa.
Hai una opinione rispetto al modo nel quale queste forme si sono evolute nell’arco degli anni, fino ad oggi?
È indubbio ci sia stata una degenerazione in molti sensi, soprattutto di tipo inflazionario. La sua versatilità e accessibilità hanno permesso a questa forma d’arte di espandersi in maniera capillare troppo spesso a discapito di originalità, significato ed esecuzione. Ma essendo la sua storia ancora tutta da scrivere suppongo fosse un passaggio inevitabile.
A dire il vero, tutto questo non mi preoccupa, quello per me che importa è contemplare ( e condividere) l’imperitura pulsione dell’umanità a disegnare sui muri. Non c’è niente di più potente di questo.
C’è un pezzo, una tag, che per te meriterebbe di essere riconosciuto istituzionalmente come rilevante dal punto di vista socio-storico-artistico-culturale per lo sviluppo di queste forme d’espressione?
L’opera che in senso artistico mi ha più toccato negli ultimi anni è stata sicuramente un muro di Alleg, amico e artista di grandissimo talento. Nella seconda edizione del festival Borgouniverso, ad Aielli, minuscolo comune abruzzese, ha riscritto l’intera opera di Fontamara sul muro sottostante all’osservatorio astronomico più antico d’Italia.

Ha preso le misure, fatto un’equazione per calcolare lo spessore delle lettere in proporzione al numero di battute, colonne e spazio della superficie, e riscritto il libro di Silone in un mese di tempo. Ha coinvolto tutta la comunità nel processo: l’opera infatti è stata scritta a più mani, da altri artisti del festival (tra cui spuntano nomi di rilievo quali Ema Jones e Ericailcane), abitanti del paese e bambini. Durante la stesura, in maniera totalmente naturale, si sono creati turni di volontari divisi in chi dettava e chi scriveva. Quello che doveva essere un semplice muro è diventato una performance collettiva, che senza alcuna pretesa sensazionalista ha riportato ad uso comune un libro che rappresenta ancora profondissimamente il carattere di quella terra. Per quanto riguarda la mia personale opinione sul senso che do all’arte urbana, non c’è risultato più grande di questo.