Intervista ad Alessandro Formigoni/Fox (PPB, Lomas, Specialisti, Hiro Proshu, Wasetti), Modena
di Pietro Rivasi e Pierpaolo Ascari

Per iniziare ti chiedo come hai iniziato ad avvicinarti all’ambiente musicale per il quale tanti ti conoscono. Che periodo era? Quali sono state le influenze che ti hanno portato lì? Da dove ti è arrivato questo stimolo?
Nel mio caso le porte di ingresso sono state due. Una è stata quella musicale, volevo suonare. Sapevo già suonare, avevo studiato jazz e bossa nova, che sono musiche con una loro complessità. Non ho incontrato ostacoli nel mettere su una band e scrivere canzoni, già lo facevo. Mi sono trovato, quindi, a mio agio anche se forse questo ha inizialmente impoverito la spontaneità ed immediatezza armonica.
Una curiosità, ci penso proprio adesso, c’è. Io mi approccio a quello che è stata la pienezza di un mio discorso musicale, di un mio contributo alla scena, al pubblico. Quello che mi è successo è che, quando io avevo 14/15, avevo un gruppo, facevamo della fusion e jazz, suonavamo anche in posti dove c’erano band punk. Al Wienna suonammo del jazz nel1982, ed il pubblico era composto da punk che tra l’altro sono stati estremamente disciplinati, hanno ascoltato tutto e alla fine hanno applaudito.
Non ho iniziato a suonare perché mi piaceva il punk, non lo conoscevo neanche.
Un giorno, avevo 17 anni, ho visto che a Modena c’era un circolo di punk, La Mongolfiera, un centro sociale diremmo oggi, era in via Tintori. A quei tempi mi piaceva una ragazza che lo frequentava, volevo conoscere anche quel posto lì. Quando sono entrato ho detto: “scusate, io non capisco questa cultura, me la potete spiegare?”.
Mi diedero delle fanzine in bianco e nero, fotocopiate, delle fanzine degli anni ’80. La Mongolfiera era un posto molto sporco, pieno di giornali per terra, porno, fumetti, birre, io non lo conoscevo perché stavo in parrocchia. Mi aveva molto affascinato questa cosa del punk, tant’è che non l’ho messa via. Sono andato con le fanze in parrocchia e ho chiesto al mio educatore cosa pensasse di queste idee, perché secondo me erano totalmente compatibili: l’uguaglianza, la libertà.
Questa gente se la vedo mi fa paura, ma se poi gli parlo penso le stesse cose che dicono loro.
Ci fu una totale chiusura rispetto a quell’ambiente. In seguito, nelle mie varie vicende, mi sono allontanato dalla parrocchia per motivi di fede. A scuola avevo conosciuto Yana: io stavo per diplomarmi e fino a quel momento, a 19 anni, non avevo tanto considerato il punk. In quel momento lì, lui me lo avevo fatto un po’ conoscere, mi è salita ‘sta fotta e ho detto “no, no, ragazzi, qua bisogna suonare”.

Mi ero messo via tutto quel know how musicale, è stato come iniziare a suonare una seconda volta, nel senso che era una semplificazione bella. Io facevo accordi di 6 note, fare dei bicordi per me era una comunicazione diretta, bella, ci si diceva le cose, frasi chiare, pulite, slogan.
Mi sono detto: “qua si va dritti al punto”. Il punk era urgenza. Non voglio usare il termine facilità a comunicare, non era tanto quello, oppure era anche quello, ma cosa comunicavi non poteva essere chissà cosa in una canzone punk, era un punto d’inizio, espressione immediata, diretta, urgente. Eri comunque arrabbiato, io tra l’altro ero stato credente ed ero arrabbiatissimo con la vita che non era più così ordinata cosmologicamente, la privazione della fede cattolica mi ha lasciato nella guazza. Non ero più ingenuo, come ai tempi della parrocchia, i buoni, i cattivi, volevo definirmi e questa cosa mi ha aiutato a definirmi. Era molto netto.
Questa cosa è durata circa un anno, durante il quale ho fatto anche il vigile del fuoco di leva, e lì ho aderito anche da un punto di vista estetico, anche se questa cosa di fare punk rock vestito da punk rock è durata molto poco. È stato una specie di rodaggio. Volevo trovare un gruppo di persone.
Era un desiderio all’inizio, non dico una necessità, ma tra punk ci cercavamo. Una volta mi sono fermato a Vignola a prendere le sigarette in un bar e dentro c’era un punk. Gli chiesto: “Ma di dove sei?”.
C’era già una complicità. Qualche volta siamo usciti, fatto gruppo, si andava al Mascotte, il locale di Antenna 1 prima dell’Oasis, e lì si ritrovava una comunità. Però questa cosa non è durata tantissimo. Dopo io, ma anche le persone che frequentavo, abbiamo trovato le nostre strade e le divise le abbiamo un po’ abbandonate. Eravamo passati anche esteticamente a tutt’altre suggestioni, con i capelli rasta, lunghi, dei vestiti che i punk non usavano. Era un po’ finita quella cosa dell’uniforme.
Io suonavo canzoni e poi mi facevo una cultura, leggevo dei libri, e ho sempre continuato a coltivare nel mio privato i discorsi estetici della musica classica, jazz, ma soprattutto brasiliana. Questo è stato l’inizio. È stato non-lineare.
Se devo sintetizzare: io, cattolico, inserito bene, zelante, all’interno di una parrocchia, conosco questi punk perché, come succede a molti, c’era una che mi piaceva, e mi ha incuriosito un casino. Poi ho avuto i miei trambusti e sono tornato lì. Poi ho iniziato a suonare. Mi piaceva molto ubriacarmi, una cosa che non facevo prima, ho iniziato in quell’epoca lì. Droga pochissima, però alcool sì, e anche atteggiamenti provocatori, tipo nudità o sporcarsi. Erano un po’ degli show. Ci piaceva metterci in mostra come dei selvaggi. Se ti devo dire il motivo, adesso non lo so. Era una cosa bella, a me piaceva così.

La scena della Mongolfiera e del Wienna aveva qualche protagonista, qualche connessione fuori Modena, o era semplicemente il tentativo di fare anche in modo diffuso, come si faceva a Londra o da qualche altra parte?
Io questa cosa dei centri giovanili, forse la Mongolfiera aveva a che fare con un centro giovanile o qualcosa del genere, e il Wienna, io non li ho mai approfonditi molto. Adesso mi interessa sapere, per un rievocare. Ma io avevo un po’ invidia del pene, nel senso che loro a me sembravano proprio quelli del momento, tutta gente che viveva al presente. Io invece ascoltavo i Beatles, Coltrane, molto Frank Zappa. Mi sentivo uno che vivacchiava sì, ma ero ancora in un ambiente genitoriale, loro li vedevo adulti. Avevano roba toga. Proiettavano Eraserhead di Lynch.
Loro erano sul pezzo dell’epoca e io non mi sentivo così, anzi, mi sentivo molto timido e insicuro, ero un super nerd. Poi questa cosa è sparita, mi sono sentito bene, normale, e ho cercato, riuscendoci, a vivere il presente ma quasi il futuro. Mi ero liberato da questa cosa.
Altre cose che noi conosciamo e abbiamo conosciuto ce ne sono?
Che io abbia conosciuto all’epoca no. Dopo, quando sono andato alla Scintilla, è cambiato tutto e ho capito che i punk c’erano anche a Sassuolo al Fassbinder, a Vignola al Lambicco, e a Carpi al Tuwat. Non so adesso quanto loro si parlassero… Mi ricordo però una cosa che non c’entra niente.

Io pensavo “Loro son toghi, ma io come faccio ad entrare. Loro sono fighi, io sono un nerd.” C’era un negozio di dischi dietro il mercato Albinelli, in via Mondatora probabilmente, il Vortex, e vendeva del dub sperimentale. Ricordo che sono andato lì e ho anche ascoltato i PIL, la roba della On-U Sound, dei Virgin Prunes, io mi dicevo “Cazzo, questo è un mondo incredibile, io non ho accesso”, anche a livello morale con il costume dell’epoca, della cultura cattolica etc. Lì avevo proprio l’invidia, pensavo “Chissà questi come se la passano bene, poi bevono, hanno donne, fanno delle cose, io zero”.
Era avanguardia valida, roba tosta, ancora oggi, seria, di cui però dopo io non ho avuto traccia, è stato come voltare pagina.
Con la mia band, i Paolino Paperino, all’inizio facevamo delle cover dei nostri punti fermi che erano i Punk ’77, gli Skiantos, cosa che poi abbiamo cercato di togliere.
Cercavamo di suonare nei posti dove si suonava e, apro parentesi, si suonava dappertutto. Una sera di giugno andavi a Vignola e c’era un concerto perché c’era la festa de l’Unità di Vignola; a Modena c’erano 4 feste de l’Unità, 4, 5, 6, concerti. Si suonava dappertutto, nei parchi… Noi volevamo suonare e abbiamo suonato dappertutto.
Poi abbiamo anche partecipato ad un concorso di gruppi musicali modenesi, In questo momento non mi ricordo come si chiamava. Saremo stati 7/8 gruppi, quasi tutti anni ’80: New Wave, Pop, Rock, forse anche uno Metal, rispecchiava moltissimo gli anni ’80, noi eravamo i più retrogradi quella volta lì. Nel senso che abbiamo fatto un concerto al cortile del San Geminiano, è stato registrato da uno studio famoso, il Santanna, e poi è uscito un vinile con tutti i pezzi, avevamo fatto anche le foto di scena in un capannone, una cosa discografica classica. Già avevamo fatto nostro primo pezzo, X, la gente ci conosceva e abbiamo suonato un po’ ovunque tra Reggio e Bologna, tutte le Feste de l’Unità, in situazioni a volte molto estreme.
Abbiamo litigato due volte con i Gang, che a noi non piacevano, li consideravamo molto antipatici, arroganti. Una volta loro ci hanno mandato via. Quella volta lì avevano ragione loro, noi eravamo degli idioti, volevamo spaccare tutto e lì credo gli spaccammo una tastiera. Erano quelle cose che a noi facevano piacere, tipo Davide e Golia, poi non era vero.
Un giorno abbiamo visto un volantino, me lo ricordo ancora, a Modena, diceva: “Serata Punk al Circolo La Scintilla in via Attiraglio”. Noi siamo andati in macchina a cercare ‘sta via Attiraglio, siamo partiti dall’RNord, si chiama via Attiraglio anche lì, abbiamo chiesto a chiunque, nessuno la conosceva, ci abbiamo messo due o tre giorni a trovarla, alla fine l’abbiamo trovata che era ‘sta casa sul naviglio, siamo entrati, ci hanno accolto, sicuramente Colbi e altre persone che avevano tra la sua e la nostra età. Era una situazione straniante, non era quello che ci aspettavamo. Loro per noi erano degli hippies. Da lì ci siamo presi reciprocamente le misure. Alla Scintilla c’erano gli Infezione, suonavano lì, facevano le prove, e noi sapevamo essere il gruppo più togo di Modena, cosa che penso fosse vera. Tra l’altro estremo.
Che anno era?
L’88
Quindi esisteva da un paio d’anni?
Sì, da 3 o 4 anni. Facevano la loro cultura con gli altri circoli anarchici, sicuramente il Lambicco, non so quanto il Fassbinder, con quelli della provincia, con Bologna.
È successo che lì ci siamo trovati bene. Con molti di loro ho sviluppato un’amicizia che dura ancora oggi, c’è della stima, abbiamo fatto tantissime cose insieme. Per quanto mi riguarda le due cose si sono fuse. Mi sono informato, ho studiato quelle idee, le ho trovate molto ispirate, mi piacevano molto. Da qui ad applicarle nella società, nella vita, nell’utopia, è un altro discorso, però comunque “tendere a”, a me questa cosa mi ha convinto, e tutt’ora sono convinto che è una “tensione a” e tutto quello che fai da qui a lì è tutto di guadagnato: i rapporti con le persone senza necessariamente sparare al re.
Lì c’è stato l’incontro con loro che poi è diventato un sodalizio, sia con i Paolino che con i gruppi successivi.
Un altro incontro incredibile, una svolta per me, come per altri, ma io parlo per me. Andavo a scuola all’Accademia d’arte di Bologna e c’era un sacco di punk moderni, di fine anni ’80, molto più colorati, a me mi facevano impazzire, mi piaceva la loro libertà. Io avevo 23 anni, mi sentivo vecchio, cazzo, vecchio di testa. Avevo la curiosità di capire cosa facevano, cosa ascoltavano. “Sono liberissimi, fanno quel cazzo che gli pare”.
Allora un giorno vedo un volantino all’Accademia con scritto “concerto per l’inaugurazione”, o qualcosa del genere, al centro sociale occupato di Bologna, L’Isola Nel Kantiere. Vado là, quella sera suonarono i Contropotere, un gruppo assolutamente ostico, c’ero andato da solo e mi sono detto che era un posto che a me faceva paura perché era sottoterra.
Tu per andare a vedere questo concerto andavi in una cantina, una cantinona, una grotta sottoterra, dovevi fare delle scale e andare giù. Poi sono tornato lì con gli amici e non abbiamo perso una serata, per tutti gli anni che è durato, 3 anni, ci siamo legati a loro anche come persone, come amicizia. Lì ho fatto anche il barista, ho organizzato delle cose, ho suonato con i Paolino in una serata bellissima di cui posso fornire le foto. L’Isola Nel Kantiere è stato come dire finalmente si è sfociati nella totale contemporaneità. Per me era importante, ma lo è anche adesso, sentire che si sta andando avanti, dare un contributo che spinga avanti. Già ascoltare roba di due anni prima eri un conservatore. Bisognava spingere, spingere sempre, per me.
Lì mi sono trovato molto bene. Dopo due anni così, l’atmosfera è cambiata per due motivi: L’Isola Nel Kantiere si ricorda sempre per l’hip hop, ma c’è stata anche un’altra cosa di uguale importanza, la rete, l’informatica, non solo all’Isola, perché era una rete grossa tra il Conchetta e altre situazioni in Italia soprattutto al nord, ma nell’Isola nel Kantiere e in altri luoghi bolognesi, va bene volantini, hip hop, ma lì stavano facendo Internet, videogiochi. È stata una cosa che non ho seguito, non ho mai fatto quegli esperimenti lì, loro erano degli ingegneri, avevano le competenze, non era come l’hip hop che se ci hai voglia, talento, costanza, tutti potevano provare, però quella roba era troppo ostica. Io non sapevo niente di computer. Poi l’ho fatto di mestiere, dieci anni dopo.
Il Cyber Punk?
Sì, c’erano le edizioni Shake che facevano molti libri. Io avevo letto T.A.Z. di Hakim Bey, Ballard, Gibson, che avevano pubblicato gli inediti. Ero affascinato moltissimo anche dai Mutoid che da Sant’Arcangelo venivano a Bologna, facevano questi carri, mezzi militari, erano dei mostri. Venivano all’Isola, si metteva rave, era una cosa che ti scoppiava la testa. Però avevo comunque la mia dimensione modenese, di provincia, perché Bologna era la capitale del mondo in quel momento lì per tante culture.
Io tornavo a Modena e facevo il mio, cercando di dare un contributo perché ero appassionato, cercando di dare concretezza alle cose.
Io e Max, un mio amico, abbiamo aperto un negozio di dischi, l’Aarghhh, un nome che non gli abbaiamo dato noi. Noi non sapevamo come chiamarlo, allora abbiamo fatto un concorso per Radio Antenna 1 e tutti gli ascoltatori proponevano un nome, noi avremmo regalato 100.000 lire di dischi a chi faceva il nome che avremmo scelto. Tutti dicevano nomi banalotti, una cosa che ci sembrava fuori, per una roba di non riutilizzare i linguaggi ma di crearli. Uno di Sassuolo, era un metallaro, quasi per schernire, “Chiamatelo Aarghhh”. A noi è piaciuto e lui è venuto a prendere i dischi.


Abbiamo aperto il negozio e a me piaceva tantissimo. Avevo 22 anni, non mi sentivo di star lavorando né guadagnando. Stavamo facendo qualcosa per noi stessi, mi dicevo “da qui possiamo costruire altre cose.” Allora abbiamo fatto l’etichetta discografica, organizzato dei concerti, prima in negozio poi in seguito, con un gruppo esteso di persone che come noi orbitavano intorno alla Scintilla, in quel momento molto popolata, con dei concerti sempre molto partecipati, affollati, festival e poi dopo si andava via due giorni a suonare, anche con gente dell’Isola Nel Kantiere, siamo andati a suonare a El paso a Torino, altre volte sono venuti loro a Modena. Era una scena che in quel momento aveva raggiunto la pienezza. Eravamo tutti molto contenti. Abbiamo cominciato a fare un po’ quello che ci pareva, nel senso che, mentre io avevo avuto solo porte in faccia, quando nell’88 dopo 3 minuti che ero punk sono andato in Comune a chiedere un posto, lì col fatto che fai un numero di persone, sposti delle cose, probabilmente qualcuno delle istituzioni avrà detto “qua ci sono dei gruppi che non abbiamo mai sentito nominare e fanno 1000 persone. Diamogli credito!”. Quindi avevamo avuto molti meno ostacoli di prima.
Abbiamo affittato il Palazzetto dello Sport, il Dadà, dove abbiamo fatto dei concerti per me indimenticabili, soprattutto quello dei Mighty Mighty Bosstones, due gruppi di quell’hardcore brutto newyorchese anni ’90, i Biohazard e Sick of it all, di quell’epoca, i SNFU , gruppo canadese in cui cantava un cinese. Poi abbiamo fatto al Condor i Fugazi. Quindi ci sentivamo con le mani libere, potevamo davvero far qualcosa. Abbiamo smesso noi. Non c’è stato un ostacolo che ci veniva posto. Al Dadà sì, non ce lo avevano più dato perché i vicini si sono lamentati non tanto a livello acustico, ma a livello visivo. Mi ricordo che a vedere tutti ‘sti punk a Castelfranco Emilia la comunità locale non era abituata. La mia impressione è che a quell’epoca si voleva fare, non c’erano, non mi ricordo scazzi.
È arrivata a collaborare della gente che fino a 3 o 4 anni prima non ci avrebbe neanche parlato: comunisti e anarchici, certi gruppi di ubriaconi con gli straight edge, per creare una situazione molto bella, io la ricordo così, non ricordo scazzi.
Quando abbiamo aperto il negozio di dischi, io e Max avevamo 22 anni, a Modena c’erano tanti negozi di dischi, uno per ogni quartiere, almeno, e poi c’erano i negozi specializzati, metal, rock americano, jazz, dance . L’età media dei gestori era la nostra. Avevano al massimo 24 o 25 anni, ed erano tanti e soprattutto specializzati. Questo l’ho sempre considerato la normalità, perché sono nato in quel mondo lì. Però comunque c’era che quando tu hai 20 o 22 anni fai quello che vuoi fare, fai le cose se vuoi farle. Se ti piace il raggae, fai il negozio raggae, c’era questa libertà di immaginarsi e di perseguire quella cosa, poi magari dopo 5 anni chiudevi perché il raggae non va più, oppure perché ti sei sposato e hai bisogno di un reddito, però comunque non è che è un fallimento. Se tu chiudi ma hai fatto 5 anni costruttivi, è così, è una vita bella. C’era la possibilità di immaginare la vita bella. Poi è chiaro non c’era l’economia di oggi, era un altro mondo. Non sto dicendo che oggi stiamo sbagliando, dico che, per capire la mentalità di chi faceva quelle cose, c’era anche questo, che si poteva. Poi non era facile. Ma facile non c’è niente, lì era difficile, anche a livello delle forze dell’ordine, della polizia, qualche problema l’abbiamo avuto.
Non è che delinquessimo, anzi facevamo scontrini a tutti, ma per una questione di look o comportamento, quando c’erano le manifestazioni a Modena avevamo sempre due poliziotti, che non facevano niente, tenevano d’occhio, poi il telefono sotto controllo.
Nei paraggi del negozio c’era spaccio?
Sì, molto. Questo merita un approfondimento. Il nostro negozio era in via Voltone, per accedere alla Pomposa che come la conosciamo adesso era impensabile com’era una volta. Via Voltone forse non era neanche asfaltata, la mattina arrivavamo, e trovavamo la fontana, dove di notte si lavavano i tossico dipendenti, piena di siringhe, qualcuna messa appuntita ed io ero terrorizzato dall’AIDS. C’erano le prostitute in centro tra cui la Gina con cui avevamo anche fatto amicizia, lei ci raccontava cose che erano fuori dal nostro immaginario.
C’erano le prostitute con la faccia gonfia.
Lì era così, era un degrado notevole. C’era il negozio di frutta e verdura di Vincenzo che vendeva roba biologica, poi è diventato un’osteria. Con Vincenzo eravamo amici, lo eravamo anche di Gino, il falegname che sta ancora alla Pomposa, lui e sua moglie ci piacevano tantissimo, andavamo a mangiare a casa loro, una bella amicizia. Con gli altri non tanto. C’era il famoso bar Croce Verde, in via della Cerca.
Lì non andavamo mai, se non qualche volta perché non avevamo il bagno. Quando entravi, tutti quelli che c’erano smettevano di parlare, era il bar della malavita. Finchè non uscivi non riprendevano i discorsi. Un giorno, eravamo in negozio tranquilli, di mattina, era l’epoca dei primi migranti del nord Africa, e delle volte facevano un po’ dei numeri, quando bevevano molto diventavano un po’ matti, però non a livello di violenza, io personalmente non l’ho mai vista. Un giorno sentiamo urlare in strada, andiamo a vedere, c’era uno che delirava in un italiano stentato e l’altra era la voce di un modenese incazzato che diceva “Che cazzo fai, vai via, sei matto”.
Praticamente un nord africano era andato al bagno, aveva sradicato il water e lo aveva spaccato in strada all’incrocio tra via Ramazzini e via Voltone dove eravamo noi. Si era tagliato ed era tutto sporco di sangue. Dopo sono andato via dal negozio.
Ho frequentato un po’ l’Aarghh ma non ho il ricordo che fosse in una zona degradata. Forse è una questione generazionale, determinata dal fatto che uno segua o meno le notizie e la retorica dei giornali. Non ho mai avuto la sensazione di poter essere in qualunque modo in pericolo nel venire lì. Da appassionato di graffiti senza che a Modena esistesse una qualunque traccia di writing, all’Aarghh c’era questo pezzo, che ho studiato per anni fino a scoprire che era di Deda, e la cosa mi sconvolse. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere niente, però avrei sempre voluto sapere come mai a Modena, dove non c’era niente relativo ai graffiti, nessuno che dipingesse, o perlomeno che lo facesse con continuità, lì dentro trovassi anche delle riviste come Trap e Crazy Kings, oltre ai dischi delle posse, addirittura anche la maglietta graffiti col divieto, che ho ancora da qualche parte, l’ho conservata.
Guarda, Deda, che non si chiamava ancora Deda ed aveva firmato il pezzo con lo pseudonimo Shan-R, era un nostro amico, lo avevamo conosciuto all’Isola Nel Kantiere, aveva 17/18 anni e lo chiamavamo Andrea. Un amico con cui si faceva balotta al quale abbiamo detto “dai, fai un graffito da noi, facciamo un cambio, ti prendi i dischi che vuoi…”. Lui ascoltava ancora l’hardcore. “Tu fai un graffito, fai quello che vuoi”. Io non ricordo cosa ha scritto, forse il nome del negozio, però non sono sicuro.

Poi nel negozio facevamo i concerti il sabato pomeriggio. Vertevano soprattutto intorno al punk, al l’hardcore, metal, e quello lì era l’elemento più scioccante per il vicinato, c’era un volume inaudito. È il discorso di prima. Era tutto possibile, sembrava tutto possibile.
Per rispondere al discorso del degrado: ci penso adesso anch’io, non mi sembra lo stesso che vediamo nelle città moderne. Era diverso.
Innanzitutto il centro storico era percepito già come degrado, a parte i monumenti che erano neri (per lo smog n.d.r.). In tutta la zona di via Carteria, via Malatesta, di notte non ci andavi. Poi non succedeva magari niente, però erano buie e nessuno ci passava e nessuno ci andava. La mattina vedevi le siringhe, c’erano le prostitute. Ne abbiamo visti tantissimi di tossicodipendenti, abbiamo fatto anche delle amicizie con gente che era tossicodipendente dall’eroina. Queste persone qua, a parte che uno l’ho trovato che mi stava aprendo la macchina, mi aveva già rotto il vetro, e aveva l’autoradio in mano, alla fine non so come è andata gli ho dato dei soldi io. Era una situazione… io ero giovane, ingenuo, fesso, quello che vuoi. Non c’era questa violenza percepita. Noi vedevamo tossicodipendenti quasi tutti i giorni. Una volta uno era davanti al negozio con la siringa nel braccio, per fortuna dormiva, ma poteva essere morto. Altri che mentre si facevano ti chiedevano scusa, “scusa, sai non sapevo dove andare”, così.
Perché erano lì? Perché c’era il distributore di siringhe dell’ospedale di Sant’Agostino, della farmacia. Tutti venivano a prenderle.
Verona e Modena erano le capitali della droga, anche capitali del furto di biciclette.
Tornando al negozio, poi sono andato via per motivi personali. Ho rotto con una scena. Ho preferito andare avanti con altre forme espressive, creative, nel senso di creare concerti, cultura.
Andai ad abitare da solo tardi, a 27 anni e sono entrato in contatto con persone che mi hanno proposto di partecipare, visto che ero libero, a un progetto molto ambizioso, che era quello di aprire un locale molto grande a Reggio Emilia. Alcune di queste persone le avevo già conosciute ad Antenna1, mi riferisco al KOM FUT Manifesto, il discorso che portavano avanti a me piaceva. L’altro un mio amico caro, Steppo, che poi è scomparso. Siamo andati a fare un sopralluogo una sera a Reggio Emilia, e organizzato il live dei Sangue Misto. I gestori erano delle delle persone, del ’77, forse ’68, come cultura, che avevano aperto ‘sto mega locale a Reggio per fare un circolo di poesia. Molto comunisti, stalinisti. Il locale non andava bene e ci hanno chiesto se lo volevamo, ce lo volevano cedere. Noi organizzammo due concerti di prova, i Sangue Misto ed un altro che non ricordo. È stata una bellissima serata. A me è sempre successo questo: non riesco a dire sì o no a qualcosa finchè non ci sono dentro a livello spaziale. Quando ci sono entrato dentro a questo locale che si chiamava Mondrian ex Locomotive, io lì mi vedo all’interno di questo contenitore e dico: “qua potrei fare così. Poi Steppo che è bravo può fare quello. Questi ragazzi di Reggio sono modernissimi”. Tutto si configura poi non è altro che eseguire. Quello è successo con molta forza. Tant’è che tutta l’estate abbiamo ristrutturato il posto, abbiamo messo gli impianti, l’estetica, abbiamo coinvolto persone che erano molto moderne.
Penso che il Link fosse già aperto, ha collaborato un po’ per l’estetica, metalli, cose così. Poi abbiamo lavorato sulla progettualità: “questo locale bisogna che diventi un locale che fa delle cose nuove, pese, potenti, per portare questa cultura ancora di più”, non è che non ci fosse quella cultura, ormai c’era, perché c’era il Left a Modena, il RedKo a Reggio, il Livello 57 a Bologna, c’era il Link, ma noi volevamo dire la nostra.
Lì la Paolino non c’è più?
Si è sciolta
Con l’Aarghh finisce la fase punk hardcore?
Finisce la fase quella che chiamavamo Modena hardcore. Finisce per me, tutti hanno continuato, hanno fatto delle cose, dischi. A Modena c’erano gruppi hardcore, facevano dischi, 45 giri, notevoli i By all means, c’erano tante cose, con la Scintilla ancora andava bene, il negozio è andato avanti per 5 anni e ha fatto le sue cose. Io mi ero spostato a vivere a Reggio Emilia, perché c’era una situazione con una dinamicità più seduttiva che stare a Modena magari a ripetere le cose già fatte. Questa cosa di Reggio mi attirava, mi attirava la città, i Reggiani. Sono i discorsi della vita che ti porta un po’ dove vuole. Il Maffia è stato aperto.
Nell’anno in cui ho avuto il Maffia si sono formati i Lomas, che rimane il gruppo che preferisco tra quelli in cui ho suonato, contribuito, cantato. Il presupposto è stato amicale, eravamo amici e volevamo divertirci. Facevamo della musica estremamente semplice. Io nel frattempo avevo fatto in tempo a disimparare a suonare bene, ma per quello che facevamo andava benissimo, lo sapevamo fare tutti, molto semplice, soprattutto parlare di quello che ci pareva, della nostra vita, ma più che della nostra vita, della nostra città. Eravamo dei cantastorie. Con i Lomas ho trovato una pienezza musicale incredibile. Qui torna il discorso dell’anarchia: ognuno può fare la canzone e la canta; oppure, io faccio una canzone e canta tu la mia, cambi i testi e va bene. Quello che mi piace dei Lomas è che non ci sono mai state tensioni rispetto ad una leardership, ognuno aveva un suo linguaggio, scriveva, cantava, anche generi diversi, ma a noi non interessava essere coerenti, a noi interessava essere felici. Quello è stato il gruppo che mi è piaciuto di più.
Parallelamente c’è stato un altro gruppo importantissimo, gli Specialisti, anch’esso basato sostanzialmente sull’amicizia. c’erano dei musicisti preparati e ci siamo permessi qualcosa in più musicalmente, che non il puro divertimento, abbiamo suonato all’estero, in tutto il nordest. Quello è stato molto bello. C’era ancora una scena, ma non era più quella che chiamavamo Modena hardcore, era anche quella, ma si era creata un’altra scena con gente più giovane di me, che poi si sono espressi, anche loro hanno i loro gruppi. Dopo lì è stato un momento di grazia,la fine degli anni ’90, dal ’96 al ’99/2000 la scena lì è stata bellissima: i Superciuk, i REV, gli Smegma. Non c’erano più le categorie, non c’era più niente, c’erano degli amici che si stimavano, zero problemi, zero litigi, come ‘tendere a’. Si cantavano le nostre canzoni. Per me è stato l’apice, della mia vita, dico, non di Modena.
Poi la cosa l’ho persa, non ho più lavorato su delle basi sociali, con un’ampiezza sociale di collaborare con le istituzioni locali. Dopo sì, si è portato avanti pian piano sempre più rarefatta questi eventi che sono stati belli, fino a qualche anno fa, sono contento. Le amicizie sono rimaste. L’apice, a livello umano del piacere di esserci, è stata la fine degli anni ’90. Prima è stata più piena di contenuti, forse, sicuramente.
A distanza di anni hai la percezione di quanto le esperienze di cui sei stato fautore siano state importanti per le generazioni a te contemporanee o successive? L’Aarghh ha lavorato in un’epoca pre-digitale, come funzionavano i contatti con le decine e decine di generi diversi che riuscivate a mettere insieme… grind, black metal, punk italiano, metal, rap… mi sono sempre chiesto come funzionava l’approvvigionamento di catalogo costituito da decine di piccole realtà.
Della prima cosa io non ne ho e non ne avevo la percezione. Non ho mai avuto attenzione su questo. A me ancora sembra strano che qualcuno lo dica. Poi mi rendo conto che era normale che questo sia avvenuto. Tu fai delle cose e influenzi altri se le fai con ampiezza, con una convinzione forte. Però non ce l’ho mai avuta, né con il negozio, né con il Maffia, che tra l’altro ho lasciato dopo un anno, e con le canzoni, no, non l’ho avuta. Non so perché, te lo dico onestamente, non ce l’ho.
Per quanto riguarda l’altra domanda, ti rispondo che me lo chiedo anch’io oggi, all’epoca si faceva così e funzionava. Per entrare nello specifico. Dal punto di vista della comunicazione tra individui c’era il telefono fisso e le riunioni, non c’era altro, però all’epoca era più che sufficiente.
Per l’approvvigionamento di dischi, essere aggiornati, c’erano le riviste che tenevano in qualche modo assieme una visione condivisa. Le riviste erano Rumore, inizialmente Rockerilla, Blast, Maximum r’n’r, Dynamo. Noi le leggevamo, vedevamo le recensioni dei dischi, ascoltavamo qualcosa in radio, In realtà scoprivamo se un disco era bello quando l’avevam già comprato. Si navigava a vista ma funzionava.
Avevi la capacità di riconoscere, ma non di capire veramente quello che stava succedendo perché eri parte del flusso stesso. Ad esempio l’hip hop. Ricordo che quando ho visto l’Onda Rossa Posse a Bologna ho avuto un senso di straniamento Questi hanno preso una musica straniera e hanno cantato in italiano di cose nostre, urlandole, facendo delle cose, non suonano, perché io ho visto non suonavano, non c’erano le chitarre, era una roba nuova e quel senso di straniamento per me era ancora più importante del fatto che mi piacessero. Lo straniamento di fronte ad una proposta culturale, uno spettacolo, un libro, un film, è la cosa più importante per me, come dire “non sto capendo, quindi vale, quindi ci siamo. Poi dopo capirò”. Lo straniamento è una roba che ti butta in una nuova dimensione. Quando ho ascoltato gli Husker Dü nell’88, “che cavolo fanno? Sento che la canzone è melodica, ma c’è ‘sta grattugia, non mi torna ‘sta musica” e alla fine è stato il mio gruppo preferito.
Non penso mai alle cose del passato ed oggi che me le chiedete, ringraziandovi della pazienza che avete avuto nell’attendere le mie risposte, sono costretto a metterle in una linea temporale e prospettica mi accorgo di fare fatica, e che oltre alla risonanza emotiva vedo gli scenari politico-culturali che hanno favorito/ostacolato gli sviluppi delle avanguardie giovanili.
Io ricordo solo che io e i miei amici volevamo fare musica, concerti, comunicazione visiva, radio e tutto quello che ci sembrava bello avendo come esigenza l’immediato, il sùbito non domani o dopodomani, non i tempi delle amministrazioni, il loro vaglio, il loro giudizio, cercando sempre di essere fuori da quelle maglie, pratica che garantiva totale libertà ma povertà di mezzi, ed onestamente sono contento che sia andata così, quando sei giovane non sei contento di aspettare il sistema perchè quello che fai oggi non è lo stesso domani, ci sono già altri stimoli, le cose invecchiavano in fretta. Ci siamo sempre mossi autonomamente, anche ai confini della legge per diffondere e godere della nostra cultura, abbiamo portato a Modena tra Dadà, palazzetto e Centri sociali: Agnostic Front, SNFU, M.M. Bosstones, Sick of it all quei babisti dei Biohazard, e poi al dancing Condor i Fugazi e i NoFx che dormirono in 8 a casa mia in assenza dei genitori, sui tavoli, in cucina, per terra.
La cosa curiosa del Condor era che al pomeriggio ballavano il liscio e poi alle 18 chiudeva ed entravamo noi con la band, impianto, cassa, birre e gestivamo la serata hardcore.


Con i Paolino suonammo anche al palasport, prima dei Ramones, ma onestamente non c’era confronto con la dimensione del centro sociale o del club, sono situazioni più intense, anche la musica sembrava più bella.
Quando iniziavano e consolidavano certi movimenti, come quello hardcore, attraverso la concretezza delle iniziative e la loro risonanza, a volte si imboccavano strade chiuse, nel momento in cui si manifestavano bisogni di sistema, nuovi dogmi, linguaggi che invecchiano in fretta, sono scappato da una parrocchia e non intendevo cadere in un altra con le sue nuove immagini sacre e i suoi riti, ho abbandonato più volte le situazioni in cui stavo, ci sono sempre state nuove strade da seguire o da tracciare.
Ho continuato praticamente fino ad oggi a cercare di creare situazioni belle, per lo più povere ma mantenendo un’azzeramento anche fisico con chi veniva a fruirne, ho organizzato a casa mia otto pomeriggi di musica, teatro, letture, gli Open mike: a chi veniva era chiesto o di esibirsi o di portare da mangiare e da bere, non è mai girato un euro, più o meno la stessa cosa da Hiro Proshu in via Sant’Eufemia nel 2016. Ora che vivo nella bassa sto cercando (sempre meno in realtà) di portare iniziative analoghe a Manitese di Finale Emilia, dove faccio il volontario e il maestro di ceramica.