WRITING

Nemo: That’s Amore!
di Pietro Rivasi

Questo mio racconto va indietro nei ricordi, anche molto prima di cominciare a fare graffiti e chiamarmi Nemo...

Nemo: That’s Amore!

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Nemo: That’s Amore!
di Pietro Rivasi

Questo mio racconto va indietro nei ricordi, anche molto prima di cominciare a fare graffiti e chiamarmi Nemo...
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Parte del mio sangue appartiene all’Emilia Romagna in concomitanza con altri luoghi, più o meno lontani. Questo mio racconto va indietro nei ricordi, anche molto prima di cominciare a fare graffiti e chiamarmi Nemo.
Da piccolissima volevo imparare il dialetto romagnolo, guidare il trattore e andare a fare dei giri in bici nel deposito merci anche se inizialmente mi faceva paura.

Mio nonno che aveva due lavori, faceva il contadino e il capostazione, abitava nelle case dei ferrovieri in questa ridente e stridente città romagnola dove passavo tutte le mie estati.
Lì ho visto squartare a mani nude conigli e galline, ho visto la neve altissima e a quattordici anni dipinto il tetto di casa: era perpendicolare alla strada quindi si vedeva di taglio solo da un punto preciso e data la mia timidezza iniziale, era perfetto.
Mio nonno lo scoprì dopo un po’di tempo visto che i vicini, appena aprivano la finestra della camera, erano schiaffeggiati da quei colori e scappò loro detto in una conversazione che c’era questo dipinto impunito. Anche se non gli andava a genio, adorava l’idea di avere una nipote artista. Tuttavia non intendeva di cosa si trattasse esattamente, come d’altronde tutti gli altri della famiglia.

Il deposito merci era un luogo non-luogo. Probabilmente mi formò a livello di percezione di spazio esterno, ma delimitato e proibito. Ero molto piccola e per andare in centro facevamo sempre la scorciatoia dei ferrovieri nel lungolinea. Era comoda ed asfaltata, quindi prima con la carozzina, poi andando coi miei piedini mano nella mano e poi… iniziai ad andare in bici, proprio nel mezzo dei mucchi di rotaie e sacchi di sassi, vagoni vecchi e lavoratori sudati, che in seguito accettarono la presenza dei bambini del vicinato, anche se l’accesso al pubblico era vietato.
Entravamo nei vagoni merci di legno, quelli rossi col la porta scorrevole, e quando nessuno ci lavorava era il nostro spazio privato di gioco.

Mi ricordo che attorno ai dieci anni gli Uniposca entrarono in uso e divennero subito culto. Scrivevo in angoli irraggiungibili i nomi dei bambini (del quartiere) che mi piacevano, ovviamente attorniati da mille cuoricini. Dietro un palo, su un mattone dietro una staccionata, come se volessi dare un messaggio all’universo che nessun altro potesse leggere.

Probabilmente ero della filosofia dello scripta manent… anche se… tinta ad acqua in esterno non manent per niente, l’importante era buttarlo fuori.

Ad un certo punto mi trasferii a Bologna. I portici mi abbracciarono subito e questo passaggio fu uno dei più felici della mia vita.

A scuola mi misero nella classe disagio, ma per me eravamo i più fighi. Venendo da un paese dove la multietnicità era normale, lì per lì, non vidi una grande differenza. Col senno di poi, mi resi conto che eravamo effettivamente ghettizzati, ma il problema era loro, non nostro.

Avevamo di seconda generazione un vietnamita, una eritrea, un’etiope, io, due casi sociali tra cui il rissaiolo barese e altri tre con l’insegnante di appoggio. Il tutto condito dalla maestra Cristina del mattino che metteva un soccia ogni due parole e la Franchina, maestra del pomeriggio, che collezionava caccole stalattitiche monumentali sotto la cattedra, pensando che nessuno la vedesse. Non ci si annoiava mai nella 3ªC.

Poi ci furono le scuole medie. Iniziai a scrivere i titoli dei compiti con lettere bubble, disegnavo i jeans delle mie compagne e mi facevo pagare (o facevo scambio equo e solidale) per scrivere i nomi degli spasimanti sugli zaini mentre la professoressa spiegava.
L’unica materia che mi piaceva era educazione artistica, il prof era il più sereno di tutti e questo sicuramente incideva.

Andava di moda il jeans rosso, le cinture coi buchi borchiati, i bomber, gli anfibi con la punta di ferro e la frangetta laccata a zampette secche sulla fronte coi i capelli schiumati stile Ambra di Non è la Rai. Non sopportavo nulla di tutte quelle trasmissioni, neanche Beverly Hills ma non ne potevo scappare, dovevo per forza fare parte del gruppo.

Probabilmente nel periodo delle medie già covavo qualcosa di quello che sarei diventata. Tra gli zaini Invicta, i jeans Levis, la Virtus e la Fortitudo, potevo solo anni dopo scegliermi un alter ego in lingua latina e rendermi conto che poi non era così morta.

Anche se abitavo lontano, in periferia, la zona che frequentavo di più era quella del palazzetto dello sport, dove si trovava la scuola.
Chi l’avrebbe mai detto che un giorno di circa 15 anni dopo, avrei dipinto una casa abbandonata in modalità hall of fame, in piena notte, da sola e con la scala proprio lì dietro?

In quell’occasione conobbi un residente che abitava nello stesso palazzo e che in quel frangente era uscito a pisciare il cane. Ci eravamo piacevolmente intrattenuti in chiacchiere.

Era un ragazzo, e diceva di taggare anche lui, un certo Nice, e per un po’ mi fece anche da palo. Lo misi anche nelle dediche.

Per non parlare del That’s Amore cubitale poco più in là, sempre su quella Riva di Reno tanto calpestata, fatto un anno dopo quello appena menzionato stile Hall of Fame.
Dipinto che dura tutt’ora con l’aggiunta di un radiatore gigante che copre la prima parte, ma è ancora lì per chi vuole alzare gli occhi e in quest’anno 2021 compie 13 anni.

La barbabietola, ed il leccalecca come suo derivato, erano i puppet che rappresentai su quel tetto That’s Amore. Mio nonno, nei tempi passati, coltivava anche quella rapa tanto comune in Romagna e quell’odore unico e tremendo emanato dalle zuccheriere, era un segno caratteristico per chi viaggiava in pianura Padana, così come l’odore delle fabbriche di ceramica a Faenza dove si andava a dipingere treni. Ma questa è un’altra storia.

Nemo - Tha'ts Amore - Bologna
Nemo – Tha’ts Amore – Bologna

Parentesi: tornando alla rapa, fu esattamente lei la protagonista del tetto di Via del Pratello, preceduta dalla scritta NE!! che la socia That’s Amore interpretò come Nello, Rava-Nello.
Forse aveva decifrato bene quello che mi passava inconsciamente per la testa: la rapa che fu l’antecedente della carota, è ancora presente in vari punti della città, come se il fato mi volesse tutt’ora ricordare le mie radici.
Tutto ha un senso che si esplicita col tempo.

Riguardo al periodo di inizio adolescenza delle scuole medie, i nonni onnipotenti e onnipresenti, volevano che frequentassi la parrocchia perché è lì che la brava gente va. Invece fu proprio in quel panorama che iniziai ad uscire dal gregge.

Era diventata la scusa per stare con gli amici oltre l’orario di rientro pomeridiano arrivando a dei picchi di ritorno a casa da 11 di sera. Per di più due obiettori di coscienza dipingevano, scrivevano MAM, Movimento Anti Mafia. Furono brevissime meteore nella scena dei graffiti bolognesi.

Non ero ancora entrata nell’ottica del writing, però ero attenta e mi affascinavano le scritte sui muri, allo stesso tempo avevo ben altro a cui pensare. Quella fetta di quartiere tra Via Riva Reno, Via Lame e Via Carracci, tra le impennate degli scooter dei più maragli con sfoggio dell’ormone galoppante, alle infinite ore passate sui muretti dei vari palazzi delle amiche, avevo scoperto un nuovo passatempo fondamentale.

L’aria era fresca, nuova e avevo bisogno di respirarne sempre di più. Il panorama grigio, ocra, rosso mattone, includeva scorci di treni che passavano sul ponte ed in seguito si fermavano nella stazione di Bologna Centrale. Il suono acido dei freni delle motrici durante le manovre si mischiava al brusìo del traffico e ai nostri schiamazzi a pieni polmoni che rimbombavano nei cortili degli edifici, e volevo che la giornata non finisse mai.

Poi ci fu un altro salto, le superiori, ovvero le anti-superiori, visto che in quel periodo vidi ben poco i banchi di scuola. Nell’arco di cinque anni si dispiegò davanti a me un panorama che andava oltre la realtà, anche grazie alla città in cui vivevo, Bologna, all’epoca ribattezzata la Amsterdam italiana.

Qui feci il mio primo bagaglio di esperienze dove la strada faceva da madre, e non da padrona.
Ho molti ricordi vividi, come quando all’inizio disegnavo coi pennelli sul muro di camera ascoltando la radio e non potevo credere alle mie orecchie: avevo scoperto l’Hip Hop, ascoltavo Radio Dj, Venerdì Rappa condotta da Esa degli OTR e Albertino se non ricordo male. Notorious Big era appena uscito con Ready to Die, i Sottotono impazzavano con La mia coccinella stile Bone Thugs ‘n’ Harmony e gli Articolo 31 che avevano sfondato le classifiche proprio quell’anno con Voglio una Lurida.
La scoperta di questa musica che si rivelò in seguito una cultura, mi spinse ad indagare ulteriormente oltre al commerciale ed infine attrarre quello che stavo cercando.
Cambiando l’ennesimo professore di musica scoprii, molto tempo dopo, che il luogo dove andavo a fare lezione in Via Pier Crescenzi era chiamato Ex Macello, ovvero il Bestial Market, e che era la vecchia sede del Livello 57.

Fin dall’inizio, il lungolinea dipinto di Bologna produceva un richiamo fatale per i miei occhi. Ci passavo spesso col treno e per me era un mistero, finché un giorno decisi di prendere la situazione in mano. Già disegnavo su carta da tempo, ma non mi bastava più. Il mio primo acquisto di bombolette lo feci in una ferramenta minuscola dietro via Castiglione, dove qualche spray in più cadde per sbaglio nella borsa. Andare in piscina era una buona scusa per stare fuori di casa ed infine non andarci. Invece di farmi le vasche facevo il mio stile libero per strada. Solo e soltanto tag e quando volevo fare qualcosa di più impegnato era figurativo.

Tante tag acquose e fantasma, prima di trovare il giusto rivenditore e la marca fatt’apposta.

A 16 anni mi comprai i Technics 1200 con i soldi di una decorazione fatta in un negozio di street-wear sotto le Due Torri, con il mio brother from different mother Erik. Phed era un’altro della famiglia stretta. Il mitico Sherif, il saggio della strada anche lui sempre presente e onniscente.

A parte pochi, non ero abitudinaria in quanto gruppo di amici, frequentavo tantissima gente, quasi nessun coetaneo. Le varie balotte avevano i background più diparati, partendo dagli universitari (la maggior parte fuori sede) quando andavo a fare fuga all’università, che poi ribeccavo di sera al TPO o nelle varie case occupate in zona, avevo amici tra i Freakkettoni della Montagnola, a cui si aggiungevano gli amici di scuola di 4ª e 5ª (io ero in 2ª), traveller, raver, musicisti, pusher, gli skater dei Gardenz… Era uno zoo infinito e ormai non vivevo più a casa mia, avevo tanto da fare.

Nemo - il primo pezzo - Foto archivio Nemo
Nemo – il primo pezzo – Foto archivio Nemo

Zona Dopa divenne un appuntamento fisso tutti i sabati sera, l’Hip Hop era un collante fortissimo e in quel luogo si era creato un ambiente speciale, un’energia inesuaribile, era diventata la punta di diamante di quella cultura a livello nazionale. A parte i locals c’era gente da tutta Italia a reappresentare le 4 discipline e anche tanti semplici amatori del movimento. In quel periodo, per vari incroci di conoscenze in diversi ambienti iniziai a beccarmi fisso con la PMC tra cui Inoki che all’epoca scriveva Enok, Gianni (che faceva la mia scuola), il Pazo aka Paniko, Flava (che era anche skater) e Joe Cassano, con cui mi misi poco dopo. Ma i writer che incontrai prima di tutti, furono Ciufs e Gino X. Passarono per caso dal Ponte di Stalingrado mentre facevo in solitaria il mio primo pezzo a grande formato.

Mi gasarono tantissimo per quell’obrobrio che avevo fatto, dei veri gentleman! Ancora il Livello 57 non esisteva.
Pochi mesi dopo fu coperto dalle galassie e dalle stelle della storica jam di graffiti In Linea.
In Linea fu una tappa importantissima per rendermi conto anche dell’ampiezza del movimento a cui appartenevo, ma questa è una storia da approfondire a parte e da ricollegare alla quella della galleria che rubò i graffiti a tutti.

Piano piano si insinuò nella mia vita la Tekno, che mi separò per un periodo dall’Hip Hop, anche se il mio mixtape rap di decompressione post-festa lo tenevo sempre stretto in tasca. Tra case occupate, furgoni e camion, teknival, fabbriche abbandonate, università autogestite e manifestazioni, ho seminato parecchi pezzi, principalmente puppet e tag, esseri biomeccanici e moltissimi elfi diabolici, ma nessuna foto.

Ad un certo punto me ne andai dalla mia amata Bologna.

La città mi stava stretta, era morto da poco il Joe e segnato in un certo modo la fine, una fine.

Mi ero miracolosamente diplomata e iniziato l’Accademia di Belle Arti che scoprii non rispecchiare per niente i miei ideali, ne artistici ne umani. Quando presentai la mia candidatura di iscrizione davanti alla giuria di professori in tavola rotonda, mi fecero una ramanzina mista a disgusto, additandomi per il block-letter argento palesato sulla totalità della facciata d’entrata.

C’era scritto Kende e mi dispiace, ma non ero io. Come poteva dilagare tanta ignoranza in un luogo del genere, la scuola per eccellenza degli artisti?

Me ne andai dall’accademia pochi mesi dopo, ulteriormente stomacata dalla didattica antiquata e conservatrice. Probabilmente il fato fece in modo che incontrassi i professori sbagliati, quelli che ti dicono cosa fare per fare l’arte bella, quelli che non vedi mai perchè c’è sempre l’assistente, quelli che fanno lezione di animazione e grafica senza a disposizione nessuna tecnologia. Nessun input fuori dal programma accademico classico, una noia tremenda.

Quasi una decina di anni dopo, Bologna mi riabbracciò, ma questa volta ero solo di passaggio. Intanto Granada e Roma mi avevano adottata e la vita capitolina mi aveva vitaminizzato in quanto writer. Lì diventai, con mia grande sorpresa, la prima queen eletta dal popolo. La mentalità imperialistica dei romani di sposava a fagiolo con quella del writing e del potere monarchico in fatto di stile.
Il pendolino mi dava sempre un passaggio per fare la spola Roma-Bologna a ritmo regolare durante quegli anni. Quando tornavo nel capoluogo emiliano avevo sempre il fuoco addosso e il coltello tra i denti. Cosa che mi rimase anche quando mi ritrasferì in pianta stabile.

Riscoprii Bologna più bella di prima, ma le cose erano cambiate. Non c’era più quel grime degli anni ’90, era ancora attiva ma aveva perso lo slancio di quell’epoca d’oro.

Aveva già iniziato l’alternarsi delle tattiche di repressione rispetto ai raggruppamenti nelle piazze, all’orario di chiusura dei locali, all’uso delle bottiglie di vetro.

Il movimento di occupazione e gli spazi liberi aveva iniziato a calare la saracinesca e alcuni di loro si erano trasformati in discoteche. I portici erano bui e abbandonati, la gente, i ragazzi, gli universitari iniziarono a rimanere a casa e la città di sera era chiaramente più pericolosa. Alcuni proprietari di bar ed attività si erano anche incatenati alle loro serrande per opporsi alle nuove restrizioni.

Nel frattempo parte degli Zero si erano diramati in Cacca Dura (Senza Paura), un collettivo che attraverso serigrafia irriverente, sartoria pirata e installazioni cyber punk aveva creato il loro quartier generale alla Fucktory. In quel mitico negozio/laboratorio multidimensionale, nacque con una socia il That’s Amore, più che una crew un’approccio di vita.

Era una frase che ripetevamo continuamente, per qualsiasi cosa, in qualsiasi momento e l’accento bolognese ne rinforzava ancora di più il concetto. In quel periodo si era creata una situazione tale per cui il bene e il fare le cose con Amore per noi aveva un senso. Avevamo attacchi di bonanza compulsivi che andavano oltre il demenziale e quindi divenne una crew ma anche un messaggio inidirizzato a tutti gli spettatori.
Quella volta del pezzo sul vecchio Cinema Ambasciatori, in via degli Orefici che dopo pochi mesi diventò una libreria/supermercato chic, avvenne la prima concezione del That’s Amore.

Cinema Ambasciatori prima e dopo la "riqualificazione" - Foto archivio Nemo
Il Cinema Ambasciatori prima e dopo la “riqualificazione” tramite supermarket – Foto archivio Nemo

Fu un incontro fortuito incontrare questa mia amica anche per ri-radicarmi con Bologna. Per me rappresentava l’emiliaromagnità ed era sempre un giocare continuo, il suo nome lo esprimeva in pieno. Faceva gioielli con tortellini di resina, i primi in circolazione a Bologna.

Dicevo più bella di prima anche perchè scoprii un’altra porzione di città, quella che andava dall’aeroporto verso il centro. La famigerata via Emilia che taglia la regione a metà e di seguito Via Saffi, che si allargava da un lato fino a via Tolmino e dall’altro fino a Via Zanardi.

I tetti furono presi di mira, erano agili e in punti tattici. Lo spray era ancora molto presente e mi piaceva sempre di più raccontare attraverso le mie quattro lettere delle storie che si svelavano solo dopo averle disegnate.

Parlai nell’orecchio dell’albero di Porta San Felice per poterlo scalare ed arrivare fin sopra al tetto della caserma, in uno stile più hippy che pirata, ma funzionò. Mi diede appoggio e continuo a ringraziarlo tuttora quando passo di lì.

Il That’s Amore è anche questo. Il pezzo padroneggia ancora sui viali, ma il muro cede poco a poco, ci vorrebbe una ristrutturazione… Non che sostenga la tecnica di protezione dei graffiti con le vetrinette alla banksy, ma almeno mantenere la superficie intatta. Poi se qualched’uno si sovrappone ed interviene, fa parte anche quello della storia e va accettato. Sarà poi la scelta dell’autore del pezzo sottostante se decidere di intervenire o meno.

In quegli anni densi di fatti, ci fu anche un inchiesta che partì da un candidato del PDL che durante la sua campagna politica prese nel mirino la comunità Rom e i graffiti, ambe due considerati degrado e la rovina della città. Andai anche a parlare da Santoro in televisione a Roma, a proposito di questo soggetto.
In queste prime settimane, un giorno si ed un giorno no, godevo del grande onore di avere un articolo dedicato a me (che poi comprese tutta la scena), su un famoso giornale di destra e evidentemente molto letto.

La quota rosa che si aggira di notte ad imbrattare i muri.. dicevano.

La scintilla che fece divampare questo incendio fu un giro di tag effettuato nel quadrilatero, tanto caro ai bolognesi benpensanti del centro.
Fu una botta di pubblicità incredibile che fece presto il giro dello stivale, amici e gente sconosciuta mi chiedevano conferme e smentite delle notizie giunte.
Ci furono perquisizioni a rastrello da persone prese a caso, come dj e breaker, senza scovare chi gli interessava veramente, i writer attivi in strada. Forse ad eccezione di un paio…

Ci furono sequestri di spray per commissioni murarie a gente che aveva smesso di dipingere senza permesso da anni, che dovette pagare avvocati per farseli ridare.
Si respirava aria pesante, ma in fin dei conti si rivelò una bella carnevalata italian style, compresa di cacciatore virtuale di writer il così detto hacker che oltre a myspace non andava e di interviste di writer più attempati, che esaltavano i tempi passati come tempi di vero stile e non di degrado come quelli del periodo odierno, dicendo che probabilmente in centro c’erano dei loro sosia che mettevano il loro nome… e chi ha talento studia e diventa grafico o scenografo, io ho fatto così e… “l’amministrazione se si impegna può farcela…. Applausi a tutti!

A qualcuno, appositamente o ingenuamente, scappò detto che suonavo regolarmente in un locale a Bologna e che ero anche dj.

I giornalisti arroganti e inappropriati diquesto giornale di destra chiamarono il proprietario del posto chiedendo di me. Alle mie serate mi portavo dietro fisso un fotografo del giornale concorrente, nel caso si fossero alzati vespai improvvisi. Ma non successe nulla.

Comunque a Bologna andava tutto come doveva andare. Io dal mio canto, a parte la prima settimana di riassetto psicologico per capire come muovermi in questa situazione, ho continuato a dipingere più che mai a modo mio, vedi l’azione dei ratti che rubano il formaggio sul cavalcavia per l’aeroporto.

Topi all'assalto del formaggio - Bologna, zona Borgo Panigale - Foto archivio Nemo
Topi all’assalto del formaggio – Bologna, zona Borgo Panigale – Foto archivio Nemo

Questa caccia assatanata alle streghe svanì pian piano nel nulla, passato il momento della campagna politica tutto si calmò. In quell’arco di tempo, però per dimostrare che erano attivi sul campo, un altro politico, quest’ultimo deputato parlamentare sempre del PDL, aveva fatto un’azione sociale in via Massarenti per spalleggiare il suo collega.

Raggrupparono quattro gatti spelacchiati con la missione di baffare tag e flop con rulli e pennelli. Ma caso vuole che proprio sopra alla loro testa incombesse la dura realtà: il pezzo argento sul tetto insieme al puppet funk che rideva con il suo grill sguaiato. Era fuori dalla loro portata e fu un beffa coi fiocchi, visualmente bellissima.

Andò sul giornale anche la rullata del Nemo che scappava sulla nuvola, con intervista alla proprietaria dell’immobile che chiedeva risarcimenti morali, oltre che monetari.

Nemo vola su una nuvola a Bologna - Foto archivio Nemo - Urbaner
Nemo vola su una nuvola a Bologna – Foto archivio Nemo

In parallelo, si organizzò un’azione come contro-risposta a tutto questo baccano mediatico. Amici miei in veste di rappresentanti, con tanto di camicia, cravatta e volto coperto, regalarono spray ai ragazzi fuori da certe scuole del centro, che felicissimi se ne riempirono le saccoccie.

Mancavano solo i tappini, ma quelli erano i puntini sulle “i”.

Sugli spray splendeva un adesivo con su scritto: questo spray è di NESSUNO.

Il programma di contro-azione proseguiva in vari ambiti e avevamo contattato altri contribuenti della scena ma poi, passato il periodo caldo, ognuno fu risucchiato dalla propria vita e non si fece più nulla.

Vota Nemo - Bologna - Foto archovio Nemo
Vota Nemo – Bologna – Foto archivio Nemo